La Corte di Appello di Milano ha assolto gli esponenti di Google condannati in primo grado nel 2010 per violazione della privacy in relazione alla pubblicazione su YouTube di un video che mostrava degli abusi nei confronti di un ragazzo Down a scuola.
In primo grado il Tribunale aveva già assolto gli imputati per il reato di diffamazione; ora in appello viene completamente sconfessata la linea della Procura di Milano, che sosteneva il fatto che Google, in quanto gestore della piattaforma tecnica di pubblicazione dei contenuti (hosting provider), avrebbe avuto un obbligo di controllo su tutti i contenuti pubblicati dai singoli utenti, assumendo un ruolo paragonabile (in Italia) a quello di un direttore responsabile di un giornale. L’accusa sosteneva che Google (e con lei tutti gli altri provider del web ovviamente) non solo è in grado ma dovrebbe filtrare ogni singolo contenuto pubblicato, esercitando un qualcosa che viene naturale definire censura preventiva. In un sussulto di razionalità che lascia una piccola speranza per il futuro, il Tribunale ha ritenuto (anche se non ci sono ancora le motivazioni) che non sia possibile porre in capo ai provider di servizi una nozione ampia di controllo dei contenuti così come concepita dall’accusa, assolvendo gli imputati “perché il fatto non sussiste”.
Nel processo di primo grado la condanna per violazione della “legge sulla privacy” si basava anche sul fatto che gli utenti avrebbero dovuto visualizzare un “avviso” prima di poter caricare dei contenuti, in cui si avvertiva della necessità di acquisire il consenso delle persone riprese eventualmente nel video e delle conseguenze penali che conseguirebbero in mancanza. Ovviamente di questo obbligo non esiste traccia nella legge (D. Lgs 196/2003), che pone degli obblighi solo a carico del titolare (in questo caso l’utente che crea e pubblica i contenuti) e anche qui per fortuna si è tornati alla ragionevolezza senza creare un pericoloso precedente.
Sembra pacifico che le responsabilità (civili e penali) debono essere attribuite eventualmente agli autori del video (senza dimenticare l’insegnante che era presente mentre i ragazzi realizzavano il video), non certo al gestore della piattaforma tecnica. Applausi alla Corte di Appello che ha rigettato una costruzione accusatoria che aveva pochi paralleli e aveva fatto scalpore in tutto il mondo.
Un’altra stranezza nella costruzione di questo processo è il fatto che i server su cui fisicamente è stato caricato il video inq uestione sono negli Stati Uniti quindi potrebbe esserci un problema di giurisdizione nell’applicare la legge italiana…
In ogni caso sarà interessante leggere le motivazioni e bisognerà aspettare l’inevitabile ricorso in Cassazione da parte della Procura, ma nel frattempo si può dire che questa sentenza interrompe una deriva pericolosa nella legislazione e nella giurisprudenza.